Un’invenzione italiana
La storia della macchina da scrivere ha incerte origini. Il più remoto tentativo di cui si ha conoscenza, risale al 1575. Il tipografo ed editore italiano, attivo a Venezia, Francesco Rampazetto, progettò un congegno meccanico con caratteri in rilievo che permetteva ai ciechi di comunicare tra loro e con altri. Un brevetto inglese (Henry Mill, 1714) documenta la costruzione di un dispositivo di cui però si persero le tracce. Piero Conti di Cilavegna (Pavia) nel 1823 realizzò il “tacheografo”: dal greco significa “che scrive in fretta“. Giuseppe Ravizza (1811-1885), avvocato novarese, costruì nel 1846 un “cembalo scrivano”, brevettato nel 1855, di cui un modello è conservato al Museo della Scienza e della Tecnca di Milano. In Sud Tirolo (oggi Alto Adige) Peter Mitterhofer, falegname e carpentiere con doti di inventore, tra il 1864 e il 1869 costruì cinque modelli di macchine da scrivere, di cui i primi due in legno. Mitterhofer si recò a piedi da Parcines a Vienna, per consegnare la sua invenzione all’imperatore Francesco Giuseppe. Il sovrano e i suoi esperti, però, non colsero l’importanza commerciale del prototipo.
La produzione industriale nasce negli USA
La colsero, invece, dall’altra parte dell’oceano. È un giornalista americano poi divenuto senatore, Christopher Latham Sholes, a studiare su una macchina di sua ideazione, una disposizione dei tasti più funzionale, in modo che le leve dei caratteri più utilizzati non fossero a contatto tra di loro, inceppandosi continuamente. Così nacque una tastiera con un ordine delle lettere non molto diverso da quello che è arrivato fino a noi, fino alle tastiere dei computer. Fu un’industria bellica statunitense, la Remington, a intuire per prima le potenzialità commerciali della nuova invenzione e a produrre i primi mille esemplari a partire dal 1874. Veniva chiamata “Qwerty”, dalla sequenza delle prime sei lettere da sinistra…ed è ancora la stessa sequenza che si trova su molte tastiere, comprese quelle della Apple. I dispositivi punto zero hanno perciò la “Qwerty” nel DNA, anche se i tasti non muovono leve, o addirittura sul touch screen non esistono più!
“Qwerty” ieri, oggi, domani
La Qwerty inizialmente scriveva solo a caratteri maiuscoli e “alla cieca per il dattilografo”, perché il carattere batteva sotto il rullo e non di fronte: gli eventuali errori di battitura si scoprivano a fine pagina alzando il rullo. La Remington sulle prime rifiutò il brevetto di un ingegnere di origine tedesca, Franz Xavier Wagner, che aveva risolto il problema introducendo la scrittura frontale, così la Underwood, altra società americana, già produttrice di nastri inchiostrati, acquistò il brevetto e si mise a produrre modelli più avanzati, come il leggendario numero 5, che nei successivi trent’anni avrebbe venduto milioni di pezzi in tutto il mondo, inaugurando l’epopea della produzione industriale e della diffusione via via sempre più capillare.
Entra in scena Camillo Olivetti
E’ quello lo scenario che incontra in America Camillo Olivetti nel 1893, quando al seguito del suo insegnante Galileo Ferraris partecipa a Chicago alla prima dimostrazione di illuminazione pubblica, ad opera di Thomas Alva Edison. Conquistato dalle nuove invenzioni, non solo dalla lampadina di Edison, Olivetti rimase due anni nel reparto di ingegneria elettrica dell’Università di Stanford. In un certo senso negli anni successivi fece il “giapponese”, portando in Italia la produzione di strumenti di misura e poi di macchine da scrivere. La prima Olivetti viene presentata all’Esposizione universale di Torino, nel 1911.
Portatili, segretarie e dattilografe
Le prime macchine sono grandi e pesanti, ma presto sorge la domanda di utilizzatori che hanno l’esigenza di portarle con sé nei viaggi e spostamenti di lavoro, scrittori e giornalisti in testa: ecco allora nascere le portatili, più leggere, comode, possibilmente “carine”, quindi piccole e compatte, con le loro valigette. Nel frattempo era nato un lavoro prevalentemente femminile, che alle origini rappresentò una delle prime occasioni di emancipazione dai totalizzanti “obblighi” domestici. La prima dattilografa fu a tutti gli effetti Lilly, la figlia del senatore Latham Sholes, cui il padre affidava il collaudo dei prototipi. Fu seguita, una-due generazioni dopo, da massicce ondate di “colleghe” che fecero tendenza, influenzando perfino la moda con la loro maniera di vestirsi e di atteggiarsi e offrendo spunti a tanti godibili pellicole nella storia del cinema, da “La dattilografa” di Lloyd Bacon (1930) a “Insieme a Parigi” (1964) con Audrey Hepburn e William Holden, fino al delizioso “Tutti pazzi per Rose”, del 2013, ma ambientato negli anni Cinquanta.
Al servizio di Sua Maestà, come 007
Il seguito è storia recente… fino a qualcosa che potrebbe riguardare il futuro: negli ultimi anni i servizi segreti di vari paesi, a cominciare da Mosca, hanno ordinato un certo numero di macchine, dato che a differenza dei computer, sono a prova di hacker.
Ma sta di fatto che proprio il computer, ovvero il “nipote intelligente” e telematico del cembalo scrivano, ha mandato in pensione la sua anziana madre, che nel frattempo nonostante l’età era divenuta sempre più bella e funzionale, progettata da famosi designer e ingegneri, e infine resa elettrica, per dare più velocità e uniformità alla scrittura.
Finita un’epoca, ma non la storia
Il 26 aprile del 2011 il Corriere della Sera pubblica il seguente epitaffio: “Nei giorni scorsi ha chiuso i battenti in India la Godrej & Boyce, l’ultima azienda al mondo che produceva macchine per scrivere”. Non era proprio così, l’errore era frutto di uno di quei copiaincolla planetari che ai tempi delle vecchie macchine non sarebbero stati nemmeno immaginabili. Alcune piccole fabbriche sopravvivono ancora oggi in Cina e hanno un loro limitato mercato. Oltre ai citati servizi segreti, vi sono luoghi e contesti in cui computer, tablet e smartphone – e relative connessioni – non sono consigliabili, o sono addirittura proibiti. Senza considerare i pizzini scritti a mano o a macchina, che alimentano il mito negativo delle varie mafie.
Nel volume “La penna, il tasto e il mouse”, (12 Euro, in vendita al museo) Umberto Di Donato ha raccolto in maniera estesa ed esaustiva la storia della macchina da scrivere, qui riportata in sintesi.